Consigliamo
la visita di questa mostra che, grazie anche alla preziosa attenzione
nell’allestimento della stessa, racchiude una poetica unica ed una intensità
espressiva che permette agli spettatori di immergersi completamente nel mondo
sensibile e prezioso di Flavio Paolucci.
Proseguendo
nel suo impegno per la valorizzazione e la divulgazione dell'opera
dei più significativi esponenti dell'Arte ticinese contemporanea, il Museo
Cantonale d'Arte di Lugano torna a proporre al pubblico l’opera di Flavio
Paolucci con una mostra che si pone in parallelo, a distanza di venticinque
anni, dalla grande personale che gli aveva già dedicato nel 1988.
Realizzata
in occasione degli ottant'anni dell'artista, nato a Torre nel 1934, la mostra, che si
compone in gran parte di opere scultoree (ma non solo), si estende sui tre piani del museo e
presenta un interessantissimo percorso che illustra gli sviluppi del lavoro di
Paolucci dal 1989 ad oggi, definendosi come una prosecuzione ideale della
mostra precedente.
L'esposizione,
curata da Elio Schenini, offre uno sguardo panoramico su questo periodo
produttivo dell’artista, estremamente vitale e ricco di sviluppi
formali ed estetici che vengono ad incrementare, con nuove invenzioni e
intuizioni spesso folgoranti, un corpus sì ampissimo ma sempre estremamente
coerente.
Riprendendo
le parole di Schenini, la mostra si intitola “Dai sentieri nascosti” e, senza avere ambizioni
antologiche, rimanda ad un inestricabile rapporto “arte-natura” vissuto nell'intimità della propria dimensione
esistenziale e che, dalla metà degli anni Settanta, costituisce la vera essenza
dell'opera di Paolucci.
Nel 1974
l'artista realizza, infatti, i suoi primi “innesti”,
lavori che segnano la reale svolta nel suo percorso d’artista: queste sono opere che, non solo appaiono
precocemente sintonizzate con alcune delle esperienze più significative
emerse in quel giro d'anni nel contesto dell'Arte Povera italiana, ma segnano
anche il superamento di una serie di esperienze di ricerca dei suoi esordi e il
definitivo approdo a quella singolarità di linguaggio chiaro e
definito che da quarant'anni contraddistingue la sua ricerca e
che si potrebbe dire legata ad un certo particolare sviluppo che rimanda a
sensazioni di assimilazione concettuale orientale.
A partire
dai primi caratteri immaginari che compaiono negli “Alfabeti selvatici”(1975), Paolucci è andato precisando e
definendo nei decenni successivi gli elementi del proprio alfabeto
visivo, arricchendolo via via di nuovi segni.
Questi
elementi rappresentano la dualità espressiva del linguaggio di Paolucci, perché
ritroviamo segni che possono essere o pienamente iconici come la barca, la colonna, la casa, la bandiera, il remo, la foglia,
il ramo, l'uovo, la perla, o altri astratto-geometrici
come il cerchio, il quadrato, il rettangolo, la retta e la
croce. Attraverso questi segni, intesi come caratteri primari che definiscono
una simbologia al contempo ancestrale ed esistenziale, l'artista
trascrive in visioni e racconti le suggestioni che gli
propone la propria esperienza quotidiana del mondo.
Un'esperienza
che, come afferma l'artista, non passa tanto attraverso l'«intelligenza del pensiero» quanto piuttosto
tramite l'«intelligenza degli occhi».
In
Paolucci però non dobbiamo dimenticare che l'occhio
si muove
sempre assieme alla mano.
La
sintassi del suo alfabeto visivo, infatti, prende forma secondo il principio del
collage, dell'assemblaggio di elementi, che si definisce in una
tradizione artigianale, e al contempo si ricollega a una
concezione della modernità che accoglie e anzi celebra il ruolo degli incidenti
provocati dalla casualità all'interno del processo creativo.
Anche i
materiali su cui l'artista esercita la propria
manualità durante il processo creativo sono sempre gli stessi da quarant'anni a
questa parte, ovvero legno, carta e colore.
Tuttavia,
come appare chiaro visitando la mostra, avvertiamo una metamorfosi nell'ultimo
decennio: infatti l'artista spesso
trasmuta questi elementi a lui tanto cari in nuovi materiali realizzando dunque
le sue sculture in bronzo, accoppiandovi altri materiali come il
vetro e il marmo.
L’effimero
tende così a diventare perenne, mantenendo comunque la sua poetica.
Sono
dunque le diverse patine con le quali sono rifiniti gli
attuali bronzi a riprendere il ruolo dei collages costituiti da quelle
carte colorate al nerofumo che negli
anni Ottanta e Novanta rivestivano come una nuova pelle i legni scortecciati
dell’artista… e sono sempre queste patine che ripropongono,
seppur in forma diversa ma rigorosamente coerente al pensiero dell’artista, quell'ambiguità
tra naturale e artificiale che da sempre caratterizza le opere di Paolucci.
Non da ultimo è da ricordare che in occasione di questa mostra è stata pubblicata (nell'ambito del Programma Binding
Sélection d' Artistes ),
un’importante monografia con testi di Martin Kunz, Hans Rudolf Reust e Elio Schenini.
Edizione bilingue italiano-inglese, 196 pagine con illustrazioni a
colori.
La mostra e la pubblicazione sono state realizzate con il contributo di:
• Sophie und Karl Binding Stiftung
• Fondazione ing. Pasquale Lucchini
• Banca dello Stato del Cantone Ticino
Museo
Cantonale d'Arte, Lugano
8
febbraio- 27 aprile 2014
a cura di Elio Schenini
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